Non appena cresce il disagio, torna il bisogno di una dose: chiamare l’amico, uscire, la ragazza, cibo, tenersi occupati, andare a correre, bere, fumare, ecc.
Non si cerca di star bene, ma si cerca di non star male.
Non si tratta necessariamente di evitare certe esperienze, ma di scoprire il grosso fraintendimento alla base. Nella soddisfazione momentanea, il livello del disagio diminuisce, anche se per brevi momenti.
Confondere, quindi, l’essere felici e lo star bene, con il non essere infelici e il non star male, è un primo elemento di fraintendimento comune. Facilmente diciamo di star bene con qualcuno, quando invece grazie a quel qualcuno non stiamo male, perché abbiamo una distrazione dal disagio esistenziale che ci accompagna tutta la vita. Ci si abitua a certe emozioni, e l’altra persona o situazione diventano il pretesto per continuare a sentirle, evitandone altre più spaventose. Nella solitudine, nell’assenza di direzioni, anziché vivere quella verità, cerchiamo nuovamente di innamorarci di qualcuno, o di fantasticare su qualche futuro. Insomma, vogliamo la nostra dose.
Preferiamo una falsa felicità piuttosto che una vera, solo per evitare di non attraversare la grotta ed uscire dall’altra parte. Conosciamo persone e situazioni apparentemente nuove, ma mai dopo aver superato la grotta, bensì sempre allo stesso punto. Infatti, pur cambiando corpi e scenografie, le emozioni, le colpe, le pretese, sono sempre le stesse.
Provare a rimanere senza soluzioni, senza correre verso la propria dose personale è l’azione più coraggiosa che si possa fare. La via verso la disintossicazione emozionale passa, necessariamente, per il sentire il proprio corpo e la mente tremare al bisogno della sua dose personale. Vedere la propria ombra per la prima volta, sentire quella paura di essere uccisi da questa, e scoprire che non uccide.
Testo di Gabriele Pintaudi